domenica 28 aprile 2013

Il matrimonio di Moussa

Moussa è un ragazzo di 24 anni: sembra un giunco tanto è alto e magro, e i suoi occhi comunicano voglia di vivere, spensieratezza, ed infinita dolcezza quando guarda suo padre, paralizzato in metà del corpo.
Ha vissuto in Italia 7 anni, per la precisione a Cesena, dove ha frequentato un corso professionale e ha fatto qualche lavoretto; poi a 21 anni è tornato qui a Niaogho.
Moussa ha lo spirito un po’ ribelle: sin da subito si è opposto al volere dei suoi genitori che volevano per lui un matrimonio in tempi brevi, come da tradizione, scartando e rifiutando tutte le candidate presentategli.
Non mi ha detto subito che si sarebbe sposato: l’ho saputo da un suo amico… che martedì sera sul ponte sul Nakambé, mentre guardavamo l’acqua scorrere, se ne è uscito dicendo “Moussa, perché non dici a Barbara che giovedì ti sposi?”.
La risposta è stata imbarazzata: “Non è vero che mi sposo, ancora non ne sono certo. Mio babbo e mia mamma insistono perché mi sposi… ho già 24 anni e poi mio fratello più piccolo si è già sposato… Io sono un po’ indeciso… però questa ragazza mi piace. Magari non avrei fatto le cose così in fretta, ma penso potrebbe essere quella giusta.”
La mattina seguente siamo insieme, e il suo telefono continua a squillare: è sua sorella che abita a Ouaga e che lo cerca insistentemente per convincerlo a ritornare sui suoi passi. Lei che per sostenere il suo diritto a sposare un uomo che amava, e per di più di una religione diversa, se ne è andata dal villaggio (poi alla fine il matrimonio non c’è stato poiché si sono lasciati, ma poco importa).
Arriva il giovedì… i festeggiamenti durano tutta la giornata: la mattina a casa di lei, dove i due sposi vengono messi seduti vicini e i parenti danno loro consigli sulla gestione della vita coniugale. Io purtroppo arrivo tardi (non trovavo la corte… ed è stato complicato chiedere indicazioni in lingua bissa), Moussa se ne è già andato (lo sposo non può restare molto tempo) e io scambio a fatica due parole con le donne che insistentemente, mentre danzano in cerchio, fanno a gara per toccarmi i capelli. La sposa è molto bella, l’abito sontuoso e le sue braccia sono decorate con grandi disegni tracciati con l’henné. Il binomio caldo soffocante e polvere sollevata dalle danze mi convince ad uscire per prendere aria.
La sera ci si sposta tutti nella corte dello sposo, anche se in realtà, dopo avere aiutato ad uccidere il montone da cucinare, nessuno se lo fila: l’attesa è tutta per la sposa.
I ragazzi e gli uomini sono tutti fuori, mentre tutte le donne sono dentro la corte, sedute sulle stuoie.
Fortunatamente il cielo è sereno e c’è una luna piena strabiliante, anche se un po’ offuscata dall’afa. Non ho neppure avuto bisogno della torcia per arrivare sin qui in bici….
Seguo Moussa qua e là, per le foto di rito. 
Ad un certo punto sentiamo avvicinarsi il corteo della sposa: tante moto strombazzanti che sfrecciano lungo i sentieri polverosi del villaggio. Arrivano prima le moto di grossa cilindrata, poi gli scooter ed infine i motorini…. classi di merito anche in questi casi. Questi centauri sembrano completamente matti: la folla è accalcata, ma loro aprono un varco a forza… io mi metto in un angolo… temendo di essere travolta. La sposa arriva così, tutta avvolta nel suo velo bianco, a cavallo di una potente motocicletta. Ha un abito diverso da quello del mattino, luccicante di ricami argentei, e la sua espressione sembra un po’ disorientata. Vorrei scambiare due parole con lei, ma vengo travolta dalle richieste di foto.
Lei nel frattempo si è seduta su una grande nat (stuoia), circondata da tutte le sue amiche.
Moussa è fuori, “perché” mi dice “se mi siedo vicino a lei, sua mamma mi dirà di uscire e che devo starle ancora lontano”.
Dopo circa 15 minuti arriva cantando e danzando ordinatamente un lungo corteo di donne, al quale mi aggiungo tentando invano di battere le mani al loro ritmo.  La donna che apre la fila porta sulla testa un enorme ammasso di pentole/stoviglie/piatti. Saranno loro a dare il via ufficiale ai festeggiamenti. Di nuovo tutti a chiedermi foto, ma questa volta è impossibile scattarne: le danze hanno sollevato troppa polvere.
Esco, e mostro al mio amico le foto appena scattate a sua moglie.
“Moussa, come ti senti?”
“Non te lo so spiegare Barbara, ma non come gli altri giorni.”
“E ora che succede?”
“Si ballerà fino al mattino… poi credo che mia moglie resterà con alcune sue amiche fino a domani sera, quando io le riaccompagnerò a casa.”

Questo post l’abbiamo scritto insieme io e Moussa, e lo dedichiamo a Daniela, che in questo giorno speciale avremmo voluto tanto avere qui con noi fisicamente.

venerdì 26 aprile 2013

La febbre dell'oro

Anche Niaogho ha la sua miniera d’oro.
Qualche mese fa, in un terreno fra Tengsoba e Sondogo, hanno trovato alcune pepite, e da allora è una corsa continua. Le opinioni in paese sono discordanti, così decido di andare a vedere di persona, con nella mente le terribili immagini della miniera di Tiebelé, visitata due anni fa.
Il ‘sito d’oro’ - come lo chiamano loro - non è molto distante da Niaogho: non saprei dire quanti chilometri siano, ma non credo più di un paio. Il paesaggio è fantastico, ed essendo aperta campagna, ci sono più alberi di quanti non se ne vedano al villaggio. Ogni tanto incontriamo il letto di quello che durante le piogge è un torrente, e così io e Moussa dobbiamo scendere dalla bici e traversarlo a piedi.
Il sole picchia forte, ma il vento ci accompagna per tutto il tragitto, talvolta ostacolando quasi con dispetto il nostro avanzare.
Quando arriviamo veniamo accolti con calore, sembran tutti molto contenti di vederci. I buchi sono molto ravvicinati. “È per questo” - mi dice il mio amico - che spesso ci sono dei crolli. Per fortuna non si è ancora fatto male nessuno. Qui non sono molto profondi… fose 8/10 metri, ma da quella parte (e mi indica una collinetta alle nostre spalle) arrivano anche a 30 metri di profondità”.
Giusto il tempo di un veloce filmato, e ripartiamo subito, perché Moussa - che ogni tanto viene qui a lavorare - vuole portarmi all’hangar di suo fratello.
Appena oltrepassiamo la collina, ecco una distesa circolare di capanne… vista da lontano sembra una ferita aperta su questa meravigliosa terra che faticosamente sta rifiorendo grazie alle piogge dei giorni scorsi. Tante capanne di fortuna, tutte uguali… riconosco gli strumenti e le tecniche viste a Tiebelé. E riconosco anche alcuni visi visti laggiù: i visi dei niagholesi che avevano deciso di cercare fortuna in quella lontana miniera.
Là avevo letto disperazione nei visi delle persone: qui sembrano tutti contenti.
Il fratello di Moussa soprattutto: gli dico che lo trovo cambiato, più sereno e rilassato. E mi conferma che qui nella miniera di Niaogho è tutta un’altra cosa: si trova spesso l’oro, anche se ormai non più come i primi tempi, e lui si è potuto comprare la nuova moto (che mi mostra con orgoglio), due tori e ha sempre un po’ di soldi da parte. Mi fa accomodare nel suo hangar, e mi dice che probabilmente sto poggiando i piedi su una distesa di pagliuzze d’oro. Qui nell’hangar si procede al lavaggio della sabbia ottenuta dalla frantumazione dei sassi: è l’ultimo stadio della catena.
Ci si cala nelle gallerie (che chiamano semplicemente buchi) e si prelevano i sassi, che verranno poi lavati bene e, se considerati interessanti, ridotti in piccoli pezzi. A questo punto se la quantità lo richiede ci si rivolgerà al proprietario di un macchinario che trasformerà le pietre in polvere, altrimenti questa operazione verrà fatta a mano, con una sorta di mortaio in metallo.
A questo punto la sabbia verrà lavata su delle assi ricoperte da pezzi di stoffa: l’acqua e la sabbia scorreranno via, mentre l’oro, più pesante, resterà nel tessuto, che verrà poi lavato in un recipiente il cui contenuto verrà a sua volta esaminato con un grande piatto.
Non vedo bambini intorno… molti giovani, qualche adolescente, ma non bambini sotto i 13 anni. Chiedo agli amici di Moussa, ma mi dicono che no, qui non è come negli altri posti: non permetterebbero mai ai bambini di calarsi nei buchi, ma sanno che in Burkina è una abitudine frequente.
Un signore mi mostra il contenuto del suo ‘piatto’, ma io vedo solo sabbia… lui mi indica un angolo dicendomi “guarda, è oro”… io mi scuso con lui, ma continuo a non vedere nulla. Il ragazzo dell’hangar vicino mi chiama per mostrarmi il suo, ed effettivamente ora lo vedo, e mi sembra pure parecchio.
Guardandomi intorno vedo solo capanne e immondizia, immondizia e capanne. Mi chiedo cosa resterà di questa terra quando l’avranno spogliata anche dell’ultima pagliuzza: i contadini che qui coltivavano miglio sono stati espropriati in nome del Dio-oro, ed ora non è che un ammasso di fango, sassi, paglia e plastica, tanta plastica, tantissima plastica lasciata in terra.
Le condizioni di lavoro sono nettamente migliori rispetto a Tiebelé (se non altro per la probabilità di guadagno), ma comunque al limite della sopportazione. Eppure sono tutti corsi qui a scavare, rischiando la vita.
Al villaggio c’è chi è a favore e chi invece è assolutamente contrario a questa miniera.
Il capo infermiere sottolinea che con l’apertura della miniera c’è stata una impennata di infezioni sessualmente trasmissibili, e che la prostituzione si sta diffondendo.
In paese lamentano una impennata dei prezzi (la legge della domanda e dell’offerta non perdona) sugli alimenti, ma anche sull’affitto delle case o sugli oggetti di uso comune come le stuoie per coprire gli hangar.
La Direttrice della scuola Tengsoba B mi dice che molti genitori hanno tolto i bambini dalle classi per portarli con sé in miniera: là vengono destinati ai compiti meno faticosi.
Ma è un’opportunità, dicono altri. Un’opportunità per cambiare vita.

La ‘febbre dell’oro’.
Ora l’ho vista.
L’ho vista nel fratello di Moussa.
E ho capito stamattina, dopo due anni, cosa fosse quella strana luce nei suoi occhi.

domenica 21 aprile 2013

L'attesa

Il Burkina è come se non l’avessi mai lasciato.
A Ouagadougou, dopo un atteraggio pazzesco con sobbalzi continui, mi accolgono 43 °C. Ed una lunga fila al controllo passaporti, poiché sono stati introdotti sistemi sofisticatissimi per il controllo dei passeggeri in entrata. Iniziano le attese. Le avevo dimenticate: come sempre accade la memoria tende ad essere selettiva.
Arrivo alla stazione dei taxi brusse alle 10e30 circa. Abas mi dice di salire su un mezzo che farà la tratta fino a Garango, passando quindi per Niaogho. Sul furgone c’è solo una persona, per cui dico ad Abas che salirò non appena l’autista ci dirà che parte… tanto dovremo aspettare ore.
Ma Abas mi suggerisce di prendere posto poiché non si tarderà molto a partire.
Colpa mia. Sapevo che il termine ‘molto’ ha qui significati variabili.
Va bene… insomma… si fa per dire.
Attendo 3 ore dentro questo furgone, sotto i soliti 43 °C, per non ‘perdere la priorità acquisita’ su questo fantastico posto finestrino che prevede sotto i miei piedi sacchi di cemento e tubi di ferro. Gradualmente il taxi brusse va riempiendosi, mentre i numerosissimi venditori ambulanti si alternano e ci propongono le merci più svariate, dagli spiedini di carne e gateaux, ai peluches e dentifrici.
Alle 13 e 30 al posto di guida si siede un ragazzino che mette in moto, e tutti i presenti si sistemano per il viaggio, finalmente contenti che si parta. Ma dopo avere percorso 30 metri, il furgone si ferma ancora. Quel ragazzino non può guidare, non ha la patente: l’autista non si sa che fine abbia fatto… bisognerà aspettare, sempre sotto i 43 gradi, questa volta tutti pressati.
Dopo circa 45 minuti arriva un ragazzone vestito tutto elegante: è lui l’autista!!! Bene, bene… si parte.
Eh no, cari miei!!! E’ l’ora della preghiera. Quindi il ragazzone appoggia la sua borsa sul sedile e se va verso la vicina moschea. Io scruto i volti dei miei vicini scuotendo il capo, per trovare anche nel loro un accenno perlomeno di disappunto. Tutti sembrano concordare… in fondo - dicono - avrebbe potuto organizzarsi in modo da essere di ritorno un po’ prima, o comunque potrebbe pregare dopo… è ammesso dalla religione. “Ah… les africaines…!!!”, ripete Abas.
Alle 14e30 finalmente si parte davvero, belli pigiati, alla volta di Niaogho, dove arriviamo dopo circa due ore e mezza.
Il calore delle persone mi lascia ancora una volta senza parole.
Mi corrono incontro per stringermi la mano e sembrano molto felici quando mi sentono rispondere al loro saluto in lingua bissa.
E le donne… come sempre impareggiabili… stamattina al mercato mi hanno accolta con un applauso… di un dolcezza infinita. Ne mancava una… la più anziana, quella che una volta mi sgridò perché compravo dalle altre e non da lei (non riuscii a spiegarle che avrei comprato un po’ da tutte poco alla volta perché non parla francese)… per un attimo ho temuto il peggio, ma mi hanno detto che da sei mesi non sta bene e non fa più il mercato… così sono andata a trovarla a casa, con sua grande sorpresa e gioia. Il gusto delle piccole cose.

Purtroppo non tutto è esattamente come l’avevo lasciato.
Alcune persone non ci sono più. Una di queste è Seyba: era il responsabile del gruppo di teatro civile di Niaogho, col quale ho collaborato in più di una occasione.
È deceduto circa due mesi fa. Mi viene spontaneo chiedere quale sia stata la causa del decesso… era così giovane… Ma lo sguardo di Abas mi ricorda l’inutilità di una domanda che, dovrei saperlo, è destinata a restare senza risposta.

Dopo


Dopo 7 mesi di rimandi forzati.
Dopo l’intervento del chirurgo.
Dopo avere perso qualcosa di me, per trovare qualcosa di più grande.
Dopo le terapie.
Dopo la cieca paura, la sofferenza ed i momenti di sconforto.
Dopo avere perso per qualche tempo il controllo sul mio corpo.
Dopo avere perso per qualche tempo il controllo della mia vita.
Dopo averli ritrovati entrambi.
Dopo averlo sognato e desiderato, il ritorno.
Dopo…
Dopo arriva la primavera.
Ed è bellissima, profumata, piena di speranza per il raccolto che arriverà, per la vita che arriverà, ed anche per le immancabili fatiche.
Speranza per i giorni di sole, quelli di pioggia, di foschia, di forte vento.
Avrà un altro sapore affrontarli.