lunedì 9 dicembre 2013

Gli arresti di Niarba

A metà dell’ottobre scorso si diffonde la notizia che nel villaggio di Niarba sono state arrestate cinque donne per mutilazioni genitali. La sesta, colei che esegue materialmente la pratica, riesce a perdersi nella brousse protetta dalle altre donne. Fra le arrestate, tre giovani e due anziane, che avevano chiamato la officiante da Ouagadougou per ‘purificare’ rispettivamente le figlie e le nipoti. Vado a Niarba per un incontro con l’associazione di donne, e - dopo molte chiacchiere e dopo essermi fermata per la notte - entro delicatamente nell’argomento. Il clima improvvisamente cambia. Appaiono sorrisi imbarazzati a fior di labbra, sguardi che si incrociano. Interviene la presidente dell’associazione. “Noi speriamo che vengano liberate.” Ripiomba il silenzio, dissonante rispetto al vociare dei minuti precedenti. “Sappiamo che non è una cosa buona. È una straniera che è venuta qui per farlo… perché noi lo sappiamo che non è una cosa buona.” Calata la notte, seduta in terra nella corte con alcuni uomini sotto la luce della luna e delle stelle, e con numerosi pipistrelli che sembrano felici della ritrovata frescura (a Niarba fa davvero freddo la notte!!), riprendo il discorso. “Noi non sapevamo nulla… sono cose private delle donne, e sono loro a decidere e organizzare tutto a nostra insaputa, perché sanno bene che se lo scoprissimo, correrebbero seri rischi.” E ancora: “Noi sappiamo che è una pratica illegale. Non sappiamo perché continuino a farlo.” Non mi convincono… Tornata a Niaogho, vengo a sapere che è l’insegnante della scuola elementare ad avere denunciato, addirittura chiamando la gendarmeria col cellulare davanti alla popolazione. “È un folle: se fosse stato fra i mossi (l’etnia dominante in Burkina Faso, Niaogho è nella regione bissa), a quest’ora sarebbe stato già morto!! L’avrebbero ucciso dopo due minuti! Ma siamo bissa, quindi l’hanno solo trasferito in città (Niaogho Centre, n.d.a.)”. Il Burkina Faso sanziona le MGF penalmente dal 1997, ed attualmente esiste un numero verde “Lotta contro l’escissione”, anonimo, proprio per tutelare l’incolumità di chi decide di denunciare. Gli infermieri di Niaogho mi dicono che pressoché la totalità delle donne che partoriscono hanno subito le mutilazioni genitali, in particolare asportazione del clitoride ed in alcuni casi anche delle piccole labbra. Mi soffermo un po’ con l’infermiera donna, che scuotendo il capo rassegnata mi dice “Non capisco perché le donne continuino a farsi questo!”. Sono davvero le donne a decidere e a perpetrare questa pratica. Una pratica che le priva totalmente del desiderio sessuale e di qualsiasi sensibilità locale, oltre a esporle a gravi pericoli durante il parto. “Essendoci non più tessuto elastico, ma una cicatrice, la dilatazione non avviene, dobbiamo intervenire noi tagliando e ricucendo dopo il parto, perché le donne lo pretendono”. Spesso, nei parti non assistiti nelle strutture sanitarie, ma che avvengono per esempio in brousse, l’incisione che viene fatta è troppo profonda e si arriva ad incidere anche il capo del nascituro. Qui in Burkina Faso, o meglio qui a Niaogho, le escissioni vengono eseguite perché si pensa che così la donna sarà più fedele al marito e non avrà voglia di cercare altri uomini, evitando così anche di contrarre malattie. Altre etnie burkinabé, ritengono invece che se al momento del parto il bambino venisse a contatto col clitoride, morirebbe o comunque contrarrebbe una grave malattia. E così le bambine vengono mutilate a 5/6 anni al massimo. Una donna mi confessa “Una volta sono tornata nel mio villaggio: le donne si stavano organizzando per chiamare una di anziana che pratica l’escissione, e volevano prendere anche mia figlia piccola. Io le ho minacciate: ho detto loro che facciano ciò che vogliono, ma che non si azzardino a toccare mia figlia o non avranno più pace!”. Le chiedo come mai non abbia denunciato o non abbia colto l’occasione per sensibilizzarle. “Oramai ci ho rinunciato! Tutte le volte in cui ci ho provato, spiegando loro che corrono grossi rischi per la salute etc, mi hanno risposto che non è vero nulla, perché anche le loro madri e le madri delle loro madri e così via hanno subito le escissioni, e non hanno mai avuto problemi, ma anzi sono state maggiormente rispettate dagli uomini. Mi crederesti se ti dicessi che ci sono donne che si oppongono alla scolarizzazione delle ragazze?! Dicono che se poi una ragazza passa i 17 anni senza sposarsi, è finita: nessuno più la vorrà. È tutto molto complicato qui.”

martedì 5 novembre 2013

Le cento persone

Anche in Burkina Faso la disoccupazione è divenuta una piaga sociale. Giovani e meno giovani, uomini e donne, lamentano una cronica mancanza di lavoro, e il governo burkinabé ha deciso di correre ai ripari: dal primo giorno di ottobre ciascun comune ha assunto 100 giovani che si occuperanno di pulizia di uffici e strade. Si tratta di 50 uomini fino a 40 anni e 50 donne fino a 45 anni, che presteranno la loro opera almeno 21 giorni al mese, 5 ore al giorno, con un compenso di 35mila CFA/mese (circa 53 €), per tre mesi. Per ciò che riguarda Niaogho, 100 persone per un comune che complessivamente, fra tutti e 8 i villaggi, conta circa 21.800 abitanti, ma l’équipe si occuperà principalmente dei due villaggi più popolosi, Niaogho Centre e Tengsoba, che insieme hanno circa 12mila abitanti. È quasi un mese che la ‘truppa’ lavora: si dovrebbe iniziare alle 7 del mattino e terminare alle 12. “Dovrebbe” poiché prima si va tutti in Comune per l’appello, dopodiché, chi ne ha voglia verso le 8 inizia a spostarsi verso il luogo scelto per il lavoro quotidiano. Alle 9 circa si inizia, con i bambini sulla schiena o attaccati al seno. Alle 10: pausa!!! Si ricomincia alle 11. Molti degli assunti dopo l’appello se ne vanno a casa, o nei propri campi a lavorare, o al CSPS per la campagna vaccinazione contro la poliomelite: almeno 4 ragazzi dei 100 sono infatti stati scelti come agenti della campagna contro la polio. Ormai un mese e… sembra tutto esattamente come prima. La sala riunioni del Comune è piena di materiale accatastato: carriole, guanti, secchi, stivali, scope, zappe, stracci da pavimento, rastrelli… insomma, tutto il necessario per liberare e fare tornare a respirare quelle porzioni di terreno divenute ormai discariche a cielo aperto. “Lo stato ci ha donato tutto il necessario” - mi dicono in Comune - “ma il materiale è incompleto… sembra manchino 20 paia di guanti… quindi attendiamo che arrivino per procedere alla distribuzione”. Due settimane fa nella sala riunioni del Comune si è tenuto un incontro informativo rispetto all’utilizzo e alla gestione delle pompe per l’acqua diffuse sul territorio. Le chiamano Formazioni e gli invitati (consiglieri, delegati etc) ricevono un compenso per la presenza, in questo caso 5mila CFA ciascuno (circa 7,60 €). I Formatori, inviati dal governo, sono venuti da Tenkodogo, capoluogo di Regione, a circa 50 km da Niaogho. Nella mattinata è prevista pausa caffè alle 11 circa durante la quale vengono serviti caffè o tè e biscotti, ed il pranzo alle 13/13e30, con riso e bibita. I Formatori sono giunti con un fuoristrada. Alle 11 un secondo fuoristrada è arrivato - sempre da Tenkodogo - col necessario per la pausa caffè, per poi rientrare in capoluogo e tornare qui col riso e le bevande per il pranzo. Perché a Niaogho evidentemente non ci sono chioschi. E neppure bibite.

mercoledì 16 ottobre 2013

La stagione secca 'fuori stagione'

La pioggia è arrivata. Improvvisa e impetuosa come lo sono tutti gli elementi naturali qui: nulla comunica dolcezza e grazia, ma forza, incredibile forza. E con la pioggia torna la speranza: nell’ultimo mese i campi sono restati troppo a lungo senza acqua. Mi dice il responsabile del servizio ambientale che fino a qualche anno fa la stagione delle piogge cominciava a fine maggio: “Non serve andare indietro di decenni, anche solo cinque anni fa. Quest’anno le prime vere piogge sono arrivate a metà luglio. Il cambiamento climatico è concreto.” Sono tornata a Niaogho il 19 settembre. È un nuovo paesaggio quello che mi accoglie: ho lasciato a luglio una terra arida, con i toni predominanti del giallo e dell’ocra, e ora ritrovo una esplosione di verde. Mais, miglio, arachidi accompagnano senza sosta lo sguardo di chi si sposta dalla capitale verso questo lembo di paese. Dico all’immancabile Abas che mi sembra strano questo paesaggio, così diverso dopo soli due mesi di assenza. Ma la sua espressione è preoccupata e mi indica le piante ai bordi della strada: “Vedi?! Non piove, si sta rovinando tutto! Vedi come è basso il miglio?! Non dovrebbe essere così. La pioggia ci ha dimenticati.” Al villaggio la preoccupazione è tanta: tutti mi parlano di questa stagione secca ‘fuori stagione’. “È da quattordici giorni che non piove! Cosa mangeremo i prossimi mesi?! Sarà un problema. Ma Dio è grande e ci aiuterà.” Lo stato ha inviato sacchi di mais da 50 kg che mette in vendita al prezzo ridotto di 6mila CFA (il prezzo di mercato sarebbe 10mila CFA), ma Zedane, che si occupa per conto della prefettura della distribuzione, mi dice che sono pochissime le persone che lo acquistano. “Le persone sperano ancora che la pioggia arrivi abbondante, così da recuperare almeno il salvabile. Lo stato avrebbe dovuto inviarli più avanti, invece, visto che rimane tutto invenduto, fra qualche giorno verranno a ritirarlo. Fra l’altro, anche volendo, i niagholesi ora come ora non hanno soldi per acquistarlo. Inoltre il mais inviato è quasi tutto inutilizzabile”. Vado nel magazzino per vedere coi miei occhi, ed il sorvegliante davanti a me buca con una lama almeno sei sacchi prima di trovarne uno contenente mais ‘buono’: “È tutto guasto” mi dice con aria sconsolata allargando le braccia e portando lo sguardo verso gli innumerevoli sacchi che riempiono fino al soffitto le tre stanze. Ma non c’è rabbia nelle loro parole, non c’è senso di impotenza, non trovo disperazione. Scorgo piuttosto tanta rassegnazione, e ricorso a quel Dio a cui tutti qui affidano la propria vita e che - loro ne sono certi - saprà aiutarli in qualche modo.

venerdì 11 ottobre 2013

La stagione secca 'fuori stagione'

La pioggia è arrivata. Improvvisa e impetuosa come lo sono tutti gli elementi naturali qui: nulla comunica dolcezza e grazia, ma forza, incredibile forza. E con la pioggia torna la speranza: nell’ultimo mese i campi sono restati troppo a lungo senza acqua. Mi dice il responsabile del servizio ambientale che fino a qualche anno fa la stagione delle piogge cominciava a fine maggio: “Non serve andare indietro di decenni, anche solo cinque anni fa. Quest’anno le prime vere piogge sono arrivate a metà luglio. Il cambiamento climatico è concreto.” Sono tornata a Niaogho il 19 settembre. È un nuovo paesaggio quello che mi accoglie: ho lasciato a luglio una terra arida, con i toni predominanti del giallo e dell’ocra, e ora ritrovo una esplosione di verde. Mais, miglio, arachidi accompagnano senza sosta lo sguardo di chi si sposta dalla capitale verso questo lembo di paese. Dico all’immancabile Abas che mi sembra strano questo paesaggio, così diverso dopo soli due mesi di assenza. Ma la sua espressione è preoccupata e mi indica le piante ai bordi della strada: “Vedi?! Non piove, si sta rovinando tutto! Vedi come è basso il miglio?! Non dovrebbe essere così. La pioggia ci ha dimenticati.” Al villaggio la preoccupazione è tanta: tutti mi parlano di questa stagione secca ‘fuori stagione’. “È da quattordici giorni che non piove! Cosa mangeremo i prossimi mesi?! Sarà un problema. Ma Dio è grande e ci aiuterà.” Lo stato ha inviato sacchi di mais da 50 kg che mette in vendita al prezzo ridotto di 6mila CFA (il prezzo di mercato sarebbe 10mila CFA), ma Zedane, che si occupa per conto della prefettura della distribuzione, mi dice che sono pochissime le persone che lo acquistano. “Le persone sperano ancora che la pioggia arrivi abbondante, così da recuperare almeno il salvabile. Lo stato avrebbe dovuto inviarli più avanti, invece, visto che rimane tutto invenduto, fra qualche giorno verranno a ritirarlo. Fra l’altro, anche volendo, i niagholesi ora come ora non hanno soldi per acquistarlo. Inoltre il mais inviato è quasi tutto inutilizzabile”. Vado nel magazzino per vedere coi miei occhi, ed il sorvegliante davanti a me buca con una lama almeno sei sacchi prima di trovarne uno contenente mais ‘buono’: “È tutto guasto” mi dice con aria sconsolata allargando le braccia e portando lo sguardo verso gli innumerevoli sacchi che riempiono fino al soffitto le tre stanze. Ma non c’è rabbia nelle loro parole, non c’è senso di impotenza, non trovo disperazione. Scorgo piuttosto tanta rassegnazione, e ricorso a quel Dio a cui tutti qui affidano la propria vita e che - loro ne sono certi - saprà aiutarli in qualche modo.

venerdì 21 giugno 2013

La magia

Vivere a Niaogho significa anche inevitabilmente lasciarsi stregare ed affascinare dai loro racconti riguardanti le magie, la gri gri (magia nera), gli spiriti degli antenati, i ‘geni’ del fiume o della terra.
E così scopro che è frequente a notte fonda incontrare sul ponte che collega Niaogho a Beguedo ‘la vieille’, la vecchia. Si tratta del ‘genio’ del fiume: nessuno può descriverla dettagliatamente, ma qualcuno l’ha intravista. Non appena i fari della moto la illuminano, lei li spegne per non esserne disturbata. L’importante - mi dicono - è non avere paura e proseguire per la propria strada: non appena passerai il ponte i fari torneranno ad accendersi e potrai tornare a casa tranquillo. Ma se ti fai prendere dal panico, non sai cosa potrebbe succedere. In egual modo potresti incontrare un cane - talvolta nero, talvolta bianco - che attraversa la strada: tu prosegui diritta senza prestargli attenzione.
E poi le magie…
A Niaogho non ci sono furti, o comunque avvengono molto raramente, poiché hanno un metodo infallibile per scovare i responsabili: inviare un fulmine.
Se sei vittima di un furto, puoi rivolgerti ad uno dei vecchi del villaggio, portandogli uno o due polli. Se il vecchio accetterà, farà il sacrificio: nell’arco di 30 minuti la pioggia arriverà e un fulmine colpirà il ladro, deponendo sul suo corpo l’oggetto o gli oggetti sottratti affinché tutti sappiano che è lui il colpevole. Finché il vecchio non avrà fatto sul cadavere i riti liberatori, nessuno potrà toccarlo pena subire la stessa sorte.
Ci sono diverse soluzioni - mi dicono - : lo chef de terre, per esempio, può sortire lo stesso risultato chiamando in aiuto non i fulmini bensì l’acqua del Nakambé.
Ma a parte queste affascinanti tradizioni, con cui si potrebbero davvero riempire pagine e pagine, grande è anche il bagaglio di conoscenze legato all’utilizzo delle piante a scopi terapeutici, la cosidetta medicina tradizionale, che purtroppo si sta perdendo a vantaggio delle case farmaceutiche per lo più indiane e francesi, detentrici del controllo del mercato burkinabé. I vecchi lasciano il corpo e i giovani non sembrano interessati a divenire i depositari delle conoscenze millenarie.
Una vera perdita.
Per tutti.


domenica 26 maggio 2013

Quegli adorabili ciuffetti

C’è molto fermento al villaggio: tutti stanno preparando i mattoni per costruire abitazioni con il tetto in lamiera ed il controsoffitto. Rare sono le persone che decidono di costruire le case, cioè le capanne tradizionali, circolari, fatte con mattoni di terra e sterco di mucca, intonacate allo stesso modo e coperte da paglia (lo sterco è il cemento dei niagholesi).
Ho sempre pensato che avessero cambiato modo di costruire perché più adatto al loro clima, ma mi sbagliavo.
Recentemente ho passato un po’ di tempo dentro le capanne, perché nei miei ‘giretti di perlustrazione’ faccio facilmente amicizia ed è frequente che i niagholesi mi invitino a restare un po’ con loro, magari mangiando tô (la polenta) di miglio o di mais. Mi è capitato di entrare nelle case anche nelle ore centrali del giorno, quelle in assoluto più calde, e scoprire con mia grande sorpresa che lì dentro non è affatto caldo, si sta al contrario molto bene e molto comodi seduti in terra, con la schiena poggiata alla parete.
Così ho iniziato a chiedere perché abbiano smesso di costruirle.
Tutti concordano: effettivamente dentro le case non si soffre né il caldo né il freddo. Sono straordinariamente isolanti. Se piove l’acqua non entra, e se tira vento è raro che possano scoperchiarsi.
Il problema è il tetto: è fatto di paglia, e la paglia oramai non si trova più.
In campagna tutti gli alberi (fatta eccezione per quelli da frutto) sono stati tagliati, e la forestale sta attuando controlli molto severi per preservare il poco rimasto.
Abas mi dice che al giorno d’oggi se vuoi fare una case, per il tetto devi alzarti alle 3 del mattino ed andare sulla strada per il villaggio di Ibogo: forse lì, pagando molto caro, potrai acquistare ciò che ti serve. E comunque dopo 2/3 anni dovrai cambiarlo, perciò si riproporrà il problema.
Altri mi dicono che sì, è vero che è difficile trovare la paglia per il tetto, ma la casa in cemento e mattoni è divenuta un po’ uno status symbol, e qui il prestigio sociale è basato su cosa e quanto possiedi. Non importa che la casa in cemento con il controsoffitto sia molto più calda, l’importante è costruirla.
La verità probabilmente sta nel mezzo.
Una cosa è certa: ho un piccolo pezzo di terra qui a Niaogho, e appena potrò ci costruirò un paio di case.
Siete tutti invitati sin da ora.



venerdì 10 maggio 2013

Il cambiamento

Il modo che qui tutti hanno di affrontare i problemi mi lascia sempre perplessa.
Non so se sia un atteggiamento proprio dei niagholesi, o se al contrario si possa generalizzare estendendolo a tutto il Paese ed oltre.
Si aspetta.
Prima o poi le cose si risolveranno.
Ça va aller”.
Nel frattempo il tempo passa.
Questo riguarda tutti gli ambiti della vita quotidiana: salute, famiglia, lavoro (se e quando c’è)…
Forse dipende dalla totale mancanza di mezzi: sono così abituati a non avere la possibilità di incidere sulla propria vita, che anche quando potrebbero averli, non li usano.
Io credo fermamente nel cambiamento, che un altro mondo sia possibile anche qui, nel cuore della brousse africana.
E credo nel cambiamento lento, fatto di piccole cose che poi si rivelano essere le più grandi.
Gandhi diceva “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.
Vorrei che i niagholesi facessero proprio questo concetto, e che lottassero e resistessero per quello in cui credono: è quello che ogni giorno tento di comunicare soprattutto ai giovani.
Ma in cosa credono?
Ci si può porre questa domanda quando il sostentamento della famiglia è incerto?
Quando il filo che ti tiene legato alla vita è talmente sottile che basta un soffio di vento per spezzarlo?
Quando i problemi sono talmente tanti che preferisci non affrontarli e quindi non pensarci?

Spesso mi rimproverano perché ho l’abitudine, quando ascolto gli altri, di tenere la testa appoggiata ad una mano: “non è una bella cosa” - mi dicono - “tu pensi troppo. Qui quando qualcuno è in quella posizione, facciamo di tutto per distrarlo ed impedirgli di pensare.”

mercoledì 1 maggio 2013

Il buio

Il buio a Niaogho è nero davvero.
Quando non c’è luna, per i miei occhi di donna abituata alla luce è difficile orientarsi.

Qualche sera fa sono uscita per andare a mangiare qualcosa al carrefour (l’incrocio), da Mariam: non era tardi… le 19e30 appena… ma il buio era già fondo… e senza luna (che in questi giorni sorge molto tardi).
Quando mi capita di uscire di notte, ho sempre la torcia con me… anche quella sera.
Uscita dal portone, mi sono incamminata lungo il sentiero, ed è stato immediato il bisogno di aprire le braccia e volgere lo sguardo al cielo stellato. Continuando a camminare (conosco il sentiero e so che non vi sono ostacoli di sorta) ho notato che tenendo lo sguardo fisso in su, gradualmente è come se le stelle si fossero accese per me una ad una, e quelle cadenti avessero deciso di iniziare allora una danza speciale a me dedicata… uno spettacolo…  
Poi sono tornata con lo sguardo avanti e… ehmm… non riconoscevo più la prospettiva: camminando al buio, pur con la torcia ma con il naso in su, ero uscita dal sentiero…
Sapevo di essere vicina a casa, poiché i profili delle capanne e delle poche case in mattoni mi era familiare, ma ero completamente disorientata.
Fermi tutti!!!
Con calma ho iniziato a illuminare lentamente le case/capanne vicine, e individuata la mia, mi ci sono diretta, per poi iniziare il percorso daccapo.
Alla fine sono riuscita ad arrivare da Mariam, sorridendo fra me e me, per gustare un piatto di igname, ma devo ammetterlo…
Mi ero proprio persa.

A 40 metri da casa.

domenica 28 aprile 2013

Il matrimonio di Moussa

Moussa è un ragazzo di 24 anni: sembra un giunco tanto è alto e magro, e i suoi occhi comunicano voglia di vivere, spensieratezza, ed infinita dolcezza quando guarda suo padre, paralizzato in metà del corpo.
Ha vissuto in Italia 7 anni, per la precisione a Cesena, dove ha frequentato un corso professionale e ha fatto qualche lavoretto; poi a 21 anni è tornato qui a Niaogho.
Moussa ha lo spirito un po’ ribelle: sin da subito si è opposto al volere dei suoi genitori che volevano per lui un matrimonio in tempi brevi, come da tradizione, scartando e rifiutando tutte le candidate presentategli.
Non mi ha detto subito che si sarebbe sposato: l’ho saputo da un suo amico… che martedì sera sul ponte sul Nakambé, mentre guardavamo l’acqua scorrere, se ne è uscito dicendo “Moussa, perché non dici a Barbara che giovedì ti sposi?”.
La risposta è stata imbarazzata: “Non è vero che mi sposo, ancora non ne sono certo. Mio babbo e mia mamma insistono perché mi sposi… ho già 24 anni e poi mio fratello più piccolo si è già sposato… Io sono un po’ indeciso… però questa ragazza mi piace. Magari non avrei fatto le cose così in fretta, ma penso potrebbe essere quella giusta.”
La mattina seguente siamo insieme, e il suo telefono continua a squillare: è sua sorella che abita a Ouaga e che lo cerca insistentemente per convincerlo a ritornare sui suoi passi. Lei che per sostenere il suo diritto a sposare un uomo che amava, e per di più di una religione diversa, se ne è andata dal villaggio (poi alla fine il matrimonio non c’è stato poiché si sono lasciati, ma poco importa).
Arriva il giovedì… i festeggiamenti durano tutta la giornata: la mattina a casa di lei, dove i due sposi vengono messi seduti vicini e i parenti danno loro consigli sulla gestione della vita coniugale. Io purtroppo arrivo tardi (non trovavo la corte… ed è stato complicato chiedere indicazioni in lingua bissa), Moussa se ne è già andato (lo sposo non può restare molto tempo) e io scambio a fatica due parole con le donne che insistentemente, mentre danzano in cerchio, fanno a gara per toccarmi i capelli. La sposa è molto bella, l’abito sontuoso e le sue braccia sono decorate con grandi disegni tracciati con l’henné. Il binomio caldo soffocante e polvere sollevata dalle danze mi convince ad uscire per prendere aria.
La sera ci si sposta tutti nella corte dello sposo, anche se in realtà, dopo avere aiutato ad uccidere il montone da cucinare, nessuno se lo fila: l’attesa è tutta per la sposa.
I ragazzi e gli uomini sono tutti fuori, mentre tutte le donne sono dentro la corte, sedute sulle stuoie.
Fortunatamente il cielo è sereno e c’è una luna piena strabiliante, anche se un po’ offuscata dall’afa. Non ho neppure avuto bisogno della torcia per arrivare sin qui in bici….
Seguo Moussa qua e là, per le foto di rito. 
Ad un certo punto sentiamo avvicinarsi il corteo della sposa: tante moto strombazzanti che sfrecciano lungo i sentieri polverosi del villaggio. Arrivano prima le moto di grossa cilindrata, poi gli scooter ed infine i motorini…. classi di merito anche in questi casi. Questi centauri sembrano completamente matti: la folla è accalcata, ma loro aprono un varco a forza… io mi metto in un angolo… temendo di essere travolta. La sposa arriva così, tutta avvolta nel suo velo bianco, a cavallo di una potente motocicletta. Ha un abito diverso da quello del mattino, luccicante di ricami argentei, e la sua espressione sembra un po’ disorientata. Vorrei scambiare due parole con lei, ma vengo travolta dalle richieste di foto.
Lei nel frattempo si è seduta su una grande nat (stuoia), circondata da tutte le sue amiche.
Moussa è fuori, “perché” mi dice “se mi siedo vicino a lei, sua mamma mi dirà di uscire e che devo starle ancora lontano”.
Dopo circa 15 minuti arriva cantando e danzando ordinatamente un lungo corteo di donne, al quale mi aggiungo tentando invano di battere le mani al loro ritmo.  La donna che apre la fila porta sulla testa un enorme ammasso di pentole/stoviglie/piatti. Saranno loro a dare il via ufficiale ai festeggiamenti. Di nuovo tutti a chiedermi foto, ma questa volta è impossibile scattarne: le danze hanno sollevato troppa polvere.
Esco, e mostro al mio amico le foto appena scattate a sua moglie.
“Moussa, come ti senti?”
“Non te lo so spiegare Barbara, ma non come gli altri giorni.”
“E ora che succede?”
“Si ballerà fino al mattino… poi credo che mia moglie resterà con alcune sue amiche fino a domani sera, quando io le riaccompagnerò a casa.”

Questo post l’abbiamo scritto insieme io e Moussa, e lo dedichiamo a Daniela, che in questo giorno speciale avremmo voluto tanto avere qui con noi fisicamente.

venerdì 26 aprile 2013

La febbre dell'oro

Anche Niaogho ha la sua miniera d’oro.
Qualche mese fa, in un terreno fra Tengsoba e Sondogo, hanno trovato alcune pepite, e da allora è una corsa continua. Le opinioni in paese sono discordanti, così decido di andare a vedere di persona, con nella mente le terribili immagini della miniera di Tiebelé, visitata due anni fa.
Il ‘sito d’oro’ - come lo chiamano loro - non è molto distante da Niaogho: non saprei dire quanti chilometri siano, ma non credo più di un paio. Il paesaggio è fantastico, ed essendo aperta campagna, ci sono più alberi di quanti non se ne vedano al villaggio. Ogni tanto incontriamo il letto di quello che durante le piogge è un torrente, e così io e Moussa dobbiamo scendere dalla bici e traversarlo a piedi.
Il sole picchia forte, ma il vento ci accompagna per tutto il tragitto, talvolta ostacolando quasi con dispetto il nostro avanzare.
Quando arriviamo veniamo accolti con calore, sembran tutti molto contenti di vederci. I buchi sono molto ravvicinati. “È per questo” - mi dice il mio amico - che spesso ci sono dei crolli. Per fortuna non si è ancora fatto male nessuno. Qui non sono molto profondi… fose 8/10 metri, ma da quella parte (e mi indica una collinetta alle nostre spalle) arrivano anche a 30 metri di profondità”.
Giusto il tempo di un veloce filmato, e ripartiamo subito, perché Moussa - che ogni tanto viene qui a lavorare - vuole portarmi all’hangar di suo fratello.
Appena oltrepassiamo la collina, ecco una distesa circolare di capanne… vista da lontano sembra una ferita aperta su questa meravigliosa terra che faticosamente sta rifiorendo grazie alle piogge dei giorni scorsi. Tante capanne di fortuna, tutte uguali… riconosco gli strumenti e le tecniche viste a Tiebelé. E riconosco anche alcuni visi visti laggiù: i visi dei niagholesi che avevano deciso di cercare fortuna in quella lontana miniera.
Là avevo letto disperazione nei visi delle persone: qui sembrano tutti contenti.
Il fratello di Moussa soprattutto: gli dico che lo trovo cambiato, più sereno e rilassato. E mi conferma che qui nella miniera di Niaogho è tutta un’altra cosa: si trova spesso l’oro, anche se ormai non più come i primi tempi, e lui si è potuto comprare la nuova moto (che mi mostra con orgoglio), due tori e ha sempre un po’ di soldi da parte. Mi fa accomodare nel suo hangar, e mi dice che probabilmente sto poggiando i piedi su una distesa di pagliuzze d’oro. Qui nell’hangar si procede al lavaggio della sabbia ottenuta dalla frantumazione dei sassi: è l’ultimo stadio della catena.
Ci si cala nelle gallerie (che chiamano semplicemente buchi) e si prelevano i sassi, che verranno poi lavati bene e, se considerati interessanti, ridotti in piccoli pezzi. A questo punto se la quantità lo richiede ci si rivolgerà al proprietario di un macchinario che trasformerà le pietre in polvere, altrimenti questa operazione verrà fatta a mano, con una sorta di mortaio in metallo.
A questo punto la sabbia verrà lavata su delle assi ricoperte da pezzi di stoffa: l’acqua e la sabbia scorreranno via, mentre l’oro, più pesante, resterà nel tessuto, che verrà poi lavato in un recipiente il cui contenuto verrà a sua volta esaminato con un grande piatto.
Non vedo bambini intorno… molti giovani, qualche adolescente, ma non bambini sotto i 13 anni. Chiedo agli amici di Moussa, ma mi dicono che no, qui non è come negli altri posti: non permetterebbero mai ai bambini di calarsi nei buchi, ma sanno che in Burkina è una abitudine frequente.
Un signore mi mostra il contenuto del suo ‘piatto’, ma io vedo solo sabbia… lui mi indica un angolo dicendomi “guarda, è oro”… io mi scuso con lui, ma continuo a non vedere nulla. Il ragazzo dell’hangar vicino mi chiama per mostrarmi il suo, ed effettivamente ora lo vedo, e mi sembra pure parecchio.
Guardandomi intorno vedo solo capanne e immondizia, immondizia e capanne. Mi chiedo cosa resterà di questa terra quando l’avranno spogliata anche dell’ultima pagliuzza: i contadini che qui coltivavano miglio sono stati espropriati in nome del Dio-oro, ed ora non è che un ammasso di fango, sassi, paglia e plastica, tanta plastica, tantissima plastica lasciata in terra.
Le condizioni di lavoro sono nettamente migliori rispetto a Tiebelé (se non altro per la probabilità di guadagno), ma comunque al limite della sopportazione. Eppure sono tutti corsi qui a scavare, rischiando la vita.
Al villaggio c’è chi è a favore e chi invece è assolutamente contrario a questa miniera.
Il capo infermiere sottolinea che con l’apertura della miniera c’è stata una impennata di infezioni sessualmente trasmissibili, e che la prostituzione si sta diffondendo.
In paese lamentano una impennata dei prezzi (la legge della domanda e dell’offerta non perdona) sugli alimenti, ma anche sull’affitto delle case o sugli oggetti di uso comune come le stuoie per coprire gli hangar.
La Direttrice della scuola Tengsoba B mi dice che molti genitori hanno tolto i bambini dalle classi per portarli con sé in miniera: là vengono destinati ai compiti meno faticosi.
Ma è un’opportunità, dicono altri. Un’opportunità per cambiare vita.

La ‘febbre dell’oro’.
Ora l’ho vista.
L’ho vista nel fratello di Moussa.
E ho capito stamattina, dopo due anni, cosa fosse quella strana luce nei suoi occhi.

domenica 21 aprile 2013

L'attesa

Il Burkina è come se non l’avessi mai lasciato.
A Ouagadougou, dopo un atteraggio pazzesco con sobbalzi continui, mi accolgono 43 °C. Ed una lunga fila al controllo passaporti, poiché sono stati introdotti sistemi sofisticatissimi per il controllo dei passeggeri in entrata. Iniziano le attese. Le avevo dimenticate: come sempre accade la memoria tende ad essere selettiva.
Arrivo alla stazione dei taxi brusse alle 10e30 circa. Abas mi dice di salire su un mezzo che farà la tratta fino a Garango, passando quindi per Niaogho. Sul furgone c’è solo una persona, per cui dico ad Abas che salirò non appena l’autista ci dirà che parte… tanto dovremo aspettare ore.
Ma Abas mi suggerisce di prendere posto poiché non si tarderà molto a partire.
Colpa mia. Sapevo che il termine ‘molto’ ha qui significati variabili.
Va bene… insomma… si fa per dire.
Attendo 3 ore dentro questo furgone, sotto i soliti 43 °C, per non ‘perdere la priorità acquisita’ su questo fantastico posto finestrino che prevede sotto i miei piedi sacchi di cemento e tubi di ferro. Gradualmente il taxi brusse va riempiendosi, mentre i numerosissimi venditori ambulanti si alternano e ci propongono le merci più svariate, dagli spiedini di carne e gateaux, ai peluches e dentifrici.
Alle 13 e 30 al posto di guida si siede un ragazzino che mette in moto, e tutti i presenti si sistemano per il viaggio, finalmente contenti che si parta. Ma dopo avere percorso 30 metri, il furgone si ferma ancora. Quel ragazzino non può guidare, non ha la patente: l’autista non si sa che fine abbia fatto… bisognerà aspettare, sempre sotto i 43 gradi, questa volta tutti pressati.
Dopo circa 45 minuti arriva un ragazzone vestito tutto elegante: è lui l’autista!!! Bene, bene… si parte.
Eh no, cari miei!!! E’ l’ora della preghiera. Quindi il ragazzone appoggia la sua borsa sul sedile e se va verso la vicina moschea. Io scruto i volti dei miei vicini scuotendo il capo, per trovare anche nel loro un accenno perlomeno di disappunto. Tutti sembrano concordare… in fondo - dicono - avrebbe potuto organizzarsi in modo da essere di ritorno un po’ prima, o comunque potrebbe pregare dopo… è ammesso dalla religione. “Ah… les africaines…!!!”, ripete Abas.
Alle 14e30 finalmente si parte davvero, belli pigiati, alla volta di Niaogho, dove arriviamo dopo circa due ore e mezza.
Il calore delle persone mi lascia ancora una volta senza parole.
Mi corrono incontro per stringermi la mano e sembrano molto felici quando mi sentono rispondere al loro saluto in lingua bissa.
E le donne… come sempre impareggiabili… stamattina al mercato mi hanno accolta con un applauso… di un dolcezza infinita. Ne mancava una… la più anziana, quella che una volta mi sgridò perché compravo dalle altre e non da lei (non riuscii a spiegarle che avrei comprato un po’ da tutte poco alla volta perché non parla francese)… per un attimo ho temuto il peggio, ma mi hanno detto che da sei mesi non sta bene e non fa più il mercato… così sono andata a trovarla a casa, con sua grande sorpresa e gioia. Il gusto delle piccole cose.

Purtroppo non tutto è esattamente come l’avevo lasciato.
Alcune persone non ci sono più. Una di queste è Seyba: era il responsabile del gruppo di teatro civile di Niaogho, col quale ho collaborato in più di una occasione.
È deceduto circa due mesi fa. Mi viene spontaneo chiedere quale sia stata la causa del decesso… era così giovane… Ma lo sguardo di Abas mi ricorda l’inutilità di una domanda che, dovrei saperlo, è destinata a restare senza risposta.

Dopo


Dopo 7 mesi di rimandi forzati.
Dopo l’intervento del chirurgo.
Dopo avere perso qualcosa di me, per trovare qualcosa di più grande.
Dopo le terapie.
Dopo la cieca paura, la sofferenza ed i momenti di sconforto.
Dopo avere perso per qualche tempo il controllo sul mio corpo.
Dopo avere perso per qualche tempo il controllo della mia vita.
Dopo averli ritrovati entrambi.
Dopo averlo sognato e desiderato, il ritorno.
Dopo…
Dopo arriva la primavera.
Ed è bellissima, profumata, piena di speranza per il raccolto che arriverà, per la vita che arriverà, ed anche per le immancabili fatiche.
Speranza per i giorni di sole, quelli di pioggia, di foschia, di forte vento.
Avrà un altro sapore affrontarli.