domenica 26 ottobre 2014

Il vecchio saggio

Il baobab sprigiona forza, imponenza, senso di eternità e imperturbabilità.
Le sue radici sono come grosse dita infilate nella terra, quasi a volerla afferrare e stringere in un pugno, per non lasciarla andare.
La sua corteccia liscia e spessa come la pelle d’ebano. Al tatto non si colgono asperità: è un albero che non ha bisogno di proteggersi con spine o schegge.
Si da completamente, tutto.
Viene spontaneo abbracciarlo, anche se le tue braccia non arriveranno mai a cingerlo completamente: nel farlo, è come se tentassi di afferrare la storia intera dell’uomo ed insieme la sua essenza, ma - appunto - arduo comprenderla interamente.
La brousse dopo Sondogo (Sondré in lingua bissa) è costellata di baobab, che quasi vegliano sul rispetto dei tempi e dei ritmi del mondo che li circonda. I grossi rami, quasi tronchi, carichi di foglie e frutti, a testimonianza della benevolenza di Madre Gaia, che quest’anno ha benedetto queste terre e gli abitanti con abbondanti piogge.
 È tempo di raccolta delle arachidi, ed i campi sono popolati da intere famiglie (ma per lo più donne) intente nel lavoro a schiena china, sotto il sole insolitamente energico di questi giorni.
Parcheggio la mia bici all’ombra di un albero di karité, e mi fermo ad osservare: da una parte la caducità della vita, la fatica quotidiana, la stretta dipendenza dai regali di Madre Natura; dall’altra la fissità, la memoria, la saggezza.

È come un vecchio saggio il baobab.




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